Un lettore di Mente e Cervello (ottobre 2009) con un disturbo bipolare, in terapia da lungo tempo con litio, aveva appreso che negli Stati Uniti la sua malattia era più frequente e più grave. Si chiedeva, pertanto, la ragione di questa differenza non giustificata dai dati genetici (la bipolarità è un tratto altamente legato al DNA), visto che la popolazione statunitense è di discendenza prevalentemente europea. Risposi che gli studi indicano l’esistenza negli Stati Uniti di un livello più alto di concomitanza con anoressia e bulimia, abuso di sostanze e ansia sotto varie forme, tutte condizioni che aggravano il disturbo bipolare, tanto da richiedere spesso trattamenti più aggressivi. In conclusione, sostenevo l’ipotesi che la popolazione statunitense, sebbene non tanto differente geneticamente da quella europea, origina da quegli emigrati che partirono in cerca di fortuna nel Diciannovesimo secolo e che dovevano essere diversi da chi preferì non fare quel salto nel buio. Si può pensare che quegli uomini e quelle donne che occupavano le terze classi delle navi portassero con sé un disturbo non conclamato, che nelle generazioni successive si è rafforzato con maggiore probabilità di essere trasmesso. Se quel lettore fosse ancora interessato all’argomento, gli consiglierei di leggere un eccellente articolo (Post RM et al. Differential clinical characteristics, medication usage, and treatment response of bipolar disorder in the US versus the Netherlands and Germany. Int Clin Psychopharm 2011; 26: 96–106) in cui l’ipotesi è stata rafforzata, se non dimostrata. In uno studio precedente, lo stesso gruppo aveva evidenziato una più elevata probabilità che negli Stati Uniti il disturbo bipolare iniziasse in età precoce, avesse una familiarità più frequente

per disturbo dell’umore e maggiore probabilità di abusi fisici o sessuali (anche questi possibilmente legati a un disturbo da parte di chi abusava).

La ricerca attuale, invece, confronta una popolazione statunitense con una europea e sostiene che alcune variabili di maggiore gravità del disturbo sono più frequenti oltreoceano: concomitanza con disturbi d’ansia e da abuso di alcol o droghe; traumi fisici o sessuali giovanili; maggiore probabilità

di disturbi dell’umore nella famiglia, più episodi di malattia, una più giovane età di inizio e, infine, una più difficile risposta ai trattamenti. Soltanto l’inabilità al lavoro era più presente in Europa, forse influenzata dalla minore mobilità occupazionale nel vecchio continente. Inoltre, dalle nostre parti i sali di litio per stabilizzare l’umore si userebbero di più e con un beneficio maggiore che al di là dell’Atlantico, mentre accade il contrario per gli altri stabilizzanti dell’umore,‘avidamente’ sostenuti dalle case farmaceutiche. Ugualmente più usati in USA sono alcuni farmaci sedativi (antipsicotici di seconda generazione) molto più costosi di quelli tradizionali (vale lo stesso commento precedente sull’interesse delle multinazionali farmaceutiche).

Gli autori concludono che le differenze, come si diceva, possono essere spiegate pensando che gli emigrati nel nuovo mondo abbiano portato con sé (nel loro DNA) una maggiore tendenza al rischio, alla competizione e alla ricerca di novità (tratti tradizionalmente attribuiti ai nostri cugini nordamericani ma anche comuni nei disturbi bipolari), tutte caratteristiche che in forma non patologica aiutano verso il successo, ma che se troppo presenti in una popolazione favoriscono un’espressione più significativa (patologica) nelle generazioni successive.

A tutto questo dovrebbe essere aggiunto (gli autori ne fanno accenno) che l’accesso alle cure è molto più problematico negli Stati Uniti dove circa il 15% della popolazione non ha un’assicurazione per malattia e ripetuti episodi psichiatrici fanno rischiare di perdere quella che si ha. Un problema che Obama ha cercato di risolvere ma che si scontra con lo sfrenato individualismo nordamericano, forse anche quello sostenuto da qualche gene ‘bipolare’di fondo.

Leonardo Tondo

Adattato da Mente e Cervello, Ottobre 2011